Alcamo-mafia: casa confiscata, sfrattati anche se assolti

0
692

Al secondo tentativo è stato portato a termine dalle forze dell’ordine lo sfratto nei confronti dei coniugi alcamesi Mario Lipari e Maria Vaccaro. Questa mattina carabinieri, polizia e vigili del fuoco sono riusciti a far uscire dall’abitazione, un appartamento in un condominio di viale Europa, marito e moglie che già una prima volta, il mese scorso, erano riusciti ad evitare. Storia singolare quella di Lipari che risale addirittura ad una trentina di anni fa. Negli anni ’80 finì sotto processo per una vecchia storia di mafia ma venne assolto nel 1993: comunque però fu destinatario di un provvedimento di confisca degli immobili di sua proprietà, tra cui per l’appunto dell’appartamento di viale Europa. Il provvedimento di confisca è ritenuto definitivo e per questo, per la legge italiana, inappellabile. L’appartamento di viale Europa per l’esattezza sarebbe intestato a Maria Vaccaro che si è sempre difesa sostenendo che lo aveva acquistato con tanti sacrifici, accusando lo Stato di contro di avere portato sul lastrico la sua famiglia. “Abbiamo dimostrato la piena legittimità e provenienza dei nostri beni, – ha affermato sempre la Vaccaro -, mio marito è stato assolto con formula piena e io, peraltro, sono in separazione di beni e la casa è intestata soltanto a me. Mi chiedo come è possibile continuare a subire un’ ingiustizia così enorme?”. Sino ad oggi fra tira, molla, proroghe, ricorsi e controricorsi i coniugi Lipari erano riusciti a tenersi stretta questa abitazione che risulta essere oggi l’unico immobile a loro intestato. Lo sfratto più volte negli anni scorsi venne sospeso sol perché nell’appartamento di Lipari viveva anche la suocera, gravemente ammalata. Il mese scorso è stato lui invece, oggi 75enne, che ha evidenziato di essere ammalato. Una storia simile capitò ad un altro alcamese ma il finale fu diverso. Stiamo parlando di Benedetto Labita che fu assolto dall’accusa di associazione mafiosa il 13 dicembre 1995, dopo una custodia cautelare durata oltre due anni nel carcere di Pianosa, dove subì torture fisiche, provate da certificazione medica. Nonostante l’assoluzione, Labita fu sottoposto a sorveglianza speciale e gli fu confiscato il patrimonio. Nel 2000 la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo condannò lo Stato Italiano per le torture subite da Labita nel carcere di Pianosa e per l’applicazione della misura di prevenzione personale. La Corte europea aveva, infatti, stabilito che non era legittima l’applicazione della misura di prevenzione sulla scorta degli stessi elementi probatori ritenuti insufficienti nel processo penale. La Cassazione, con la sentenza del 15 dicembre 2011, cui aveva ricorso Labita, annullò una precedente ordinanza della corte d’appello rinviando alla stessa per un nuovo esame, ora la decisione definitiva. Segno di una giustizia che alle volte procede a due velocità ed anche in diverse direzioni.