Il giorno tanto atteso è arrivato. Dopo tre anni e mezzo vengono tolti i sigilli al porto di Castellammare del Golfo. La procura ha disposto il dissequestro a seguito della conclusione delle indagini che hanno travolto la struttura portuale castellammarese nell’ambito di un’inchiesta antimafia. Adesso potranno riprendere i lavori interrotti per l’esattezza nel maggio del 2010 quando la guardia di finanza avviò un’indagine relativa all’ipotesi di realizzazione dell’infrastruttura con cemento depotenziato e materiale inerte non corrispondente ai parametri previsti dal capitolato di appalto e frode nelle pubbliche forniture. In seguito, il 6 luglio 2010, i lavori sono stati parzialmente dissequestrati, ma di fatto non sono mai stati riaperti i cantieri. La società consortile Nettuno S.C.A.R.L., esecutrice dell’appalto, ha anche rischiato di essere travolta dai debiti, pressata dai fornitori-creditori da un lato ed impossibilitata ad incassare gli stati di avanzamento dall’altro. “Per il paese è un grande giorno – afferma il sindaco Nicolò Coppola – perché finalmente si sblocca un’opera pubblica assolutamente di vitale importanza per la cittadina sia dal punto di vista economico che imprenditoriale”. In ballo un finanziamento da 40 milioni di euro che prevedevano il prolungamento della diga foranea, la messa in sicurezza e tutte le opere di completamento. All’epoca in cui scattò l’indagine furono passati ai raggi x le imprese appaltanti e sub-appaltanti coinvolte nel contratto di esecuzione dei lavori. I finanzieri avevano posto sotto sequestro l’intera struttura cementizia realizzata all’interno dell’area di cantiere del porto dove erano stati dislocati i massi artificiali destinati a contenere il moto ondoso e che non sarebbero stati considerati conformi a quanto stabilito dal contratto di appalto. Si era parlato dell’ennesimo caso di utilizzo di cemento “impoverito”. Le perquisizioni e i sigilli della guardia di finanza avrebbero interessato in diverso modo anche le tre aziende coinvolte: la CO.VE.CO di Marghera, la CO.G.EM di Alcamo di Vito Emmolo e la COMESI di Palermo. Si tratta delle tre aziende che nel 2005 si erano aggiudicate costituendosi in ATI (associazione temporanea di imprese) il primo stralcio dei lavori per un importo di 20 milioni di euro con un ribasso d’asta dell’11,87 per cento. La gara d’appalto non dovette presentare difficoltà essendo l’Ati in questione l’unica partecipante al bando. L’utilizzo di cemento depotenziato venne accertato nel gennaio del 2011, quando la magistratura verificò che il materiale utilizzato non era a norma e quindi confermando che il porto non era e non è tutt’ora in sicurezza. Le indagini si intrecciarono con quella antimafia denominata “Cosa Nostra resort” che vedeva come maggiore imputato Tommaso Coppola, imprenditore di Valderice, e Francesco Pace, arrestato anche lui e ritenuto boss della famiglia trapanese. Proprio durante il dibattimento è emerso che l’imprenditore Francesco Pace offrì a Tommaso Coppola la possibilità di occuparsi della fornitura per i lavori al porto. Degli stessi lavori ha parlato anche Gaspare Pulizzi, pentito ed ex braccio destro dei Lo Piccolo, dicendo che la famiglia mafiosa di Alcamo, per conto di Matteo Messina Denaro, si mosse allo stesso modo per far arrivare le forniture di cemento da un’impresa di Partinico.