Mafia, “Cemento del Golfo”-Quel doppio gioco dell’imprenditore antiracket

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Era seduto in prima fila nella saletta “Rubino” del centro congressi “Marconi” quando, nel maggio dello scorso anno, ad Alcamo si è ricostituita l’Associazione antiracket e antiusura dopo un paio d’anni di silenzio, legato anche alla mancanza di una sede. Una trentina di imprenditori, qualche sindacalista, qualche politico, il presidente di Confindustria Trapani, per celebrare l’evento e rilanciare la lotta contro il pizzo gestito dalla mafia. Venne eletto il direttivo con il ritorno alla presidenza dell’ispettore di polizia Vincenzo Lucchese. Nella fase di composizione del collegio dei probi viri un posto di rilievo venne assegnato all’imprenditore Vincenzo Artale. E non poteva essere diversamente. Un incarico se lo era meritato sul campo tanto che era assurto come una sorta di portabandiera dell’Antiracket. Di un esempio da seguire perché dieci anni fa aveva denunciato con tanto di nomi e cognomi mafiosi e fiancheggiatori, dando il la all’operazione “Cemento libero” dei carabinieri e “Abele” della polizia. Due betoniere bruciate. Il negozio per articoli da profumo della moglie, in via Barone di San Giuseppe, dato alle fiamme, Vincenzo Artale, che nasce come autotrasportatore, si ritrova accanto Vincenzo Lucchese, che inizia la sua battaglia per il risarcimento previsto dalla Stato per coloro che denunciano il pizzo. Lucchese va a bussare a Trapani, Palermo e Roma. Artale ottiene un finanziamento di circa 200 mila euro da utilizzare per impiantare un’azienda per il calcestruzzo in contrada Sasi. Ancora non è stata ultimata e forse non lo sarà mai. Per potere lavorare in un settore gestito dalla mafia, quello florido del calcestruzzo con commesse pubbliche e private, occorre mettersi a disposizione di cosa nostra, come emerge, ancora una volta, dalle indagini condotte dai carabinieri di Alcamo e dirette dal capitano Savino Capodivento, comandante la locale compagnia. Ma come si arriva all’arresto di Artale e degli altri quattro castellammaresi? Proprio nella città del Golfo vengono perpetrati attentati intimidatori contro imprenditori. Anno 2013 il capitano Capodivento avvia le indagini, col supporto anche dei militari di Castellammare. Iniziano pedinamenti e intercettazioni telefoniche rilevatesi ancora una volta determinanti. Quando i militari ascoltano le conversazioni incrociano anche Artale. Sono quasi increduli, ma man mano che i militari vanno avanti non possono fare altro che “un’amara constatazione”. Inizia il via vai di interrogatori. C’è l’imprenditore che ammette le vessazioni. C’è quello omertoso forse per paura di ritorsione. Un lavoro investigativo dei carabinieri di Alcamo lungo, complesso e meticoloso. Piano piano i carabinieri mettono al loro posto tutte le pedine del puzzle che da il via all’operazione”Cemento del Golfo, sgominando anche una base di supporto finanziario, dicono gli investigatori, per Matteo Messina Denaro. In manette anche Vincenzo Artale che scatena un tam tam mediatico nazionale per la sua doppia faccia: ruolo nell’antiracket ma al servizio dei boss. Ieri la conferenza stampa a Palermo durante la quale i procuratori Lo Voi e Scarpinato hanno parlato di antimafia di facciata e di tali episodi è ricca la cronaca. Trincerarsi dietro l’antimafia per i propri interessi rischia di appannare l’immagine anche di chi la lotta a cosa nostra la fa veramente e disinteressatamente. Intanto l’Associazione antiracket alcamese, ha manifestato “sgomento” ma anche la volontà di andare avanti a fianco degli onesti. Ha deciso di costituirsi parte civile, e si è complimentata, come tante altre associazioni e istituzioni, con i carabinieri di Alcamo. I cinque sono stati rinchiusi nelle carceri palermitane di “Pagliarelli”.